Per cucina di frontiera si intende l’insieme di quei piatti tradizionali dei paesi nostri limitrofi, che con il passare del tempo sono entrati a far parte delle nostre tradizioni.
Dallo strüdel alla saint-honoré, dalle crépes ai canederli, sono infiniti i piatti che ci scambiamo da una lato all’altro del confine.
La Calabria, nel corso dei secoli, ha assimilato usi e tradizioni da molte civiltà: è stata destinataria di invasioni ed immigrazioni da ogni punto cardinale.
Di bizantini, romani, normanni, svevi, arabi, spagnoli, turchi, rimangono tracce nell’architettura e nell’arte: chiese, castelli e manufatti di una bellezza inimmaginabile riempiono la regione.

I visigoti hanno sepolto il loro re Alarico, secondo la leggenda, alla confluenza tra Crati e Busento: la città di Cosenza è tutt’oggi meta di ricercatori, studiosi e semplici speranzosi alla ricerca dell’aurea tomba dove si dice che, oltre al cavallo ed all’armatura di Alarico, siano sepolte anche le sue ricchezze.
Una piccola comunità valdese è presente sulla costa tirrenica cosentina: a Guardia Piemontese si parla l’incomprensibile guardiolo, derivato locale dalla lingua occitana e si danzano i caratteristici balli nel corso della settimana occitana, in agosto.
Più nutrita la comunità grecanica, sul versante jonico della provincia di Reggio Calabria: Bova, Condofuri, Roccaforte, il meraviglioso paese “fantasma” di Pentedattilo ne fanno parte.
Ma la presenza più massiccia in assoluto è quella albanese. In Calabria si registra il più alto numero di albanesi: circa 60.000, suddivisi in una trentina di comuni.

Il loro arrivo in Calabria iniziò nel 1400, con i militari albanesi al servizio di feudatari ed angioini che si combattevano tra di loro.
Successive migrazioni, soprattutto dopo la morte del loro eroe nazionale Giorgio Skanderbeg, portarono in Italia un nutrito numero di albanesi che si insediarono nel meridione ed in particolare nella provincia di Cosenza, fondando delle comunità che conservano ancora oggi usi, tradizioni, cucina e lingua arbëreshë.
Nel cuore della Cosenza storica, ai piedi della collina su cui sorge il castello, vi è un busto dedicato a Skanderbeg, a testimoniare la forte presenza di queste comunità.

Il dialetto parlato in questi paesi (Vaccarizzo Albanese, Spezzano Albanese, San Benedetto Ullano per citarne alcuni) è un misto di toskë, il dialetto dell’Albania meridionale, greco antico e dialetto calabrese.
“U zienj” “io cucino” è una delle prime cose che ho imparato da mia suocera, insieme a “falaminderit” “grazie”, e, ovviamente, tutte le parolacce.
Da lei ho imparato anche il kabunì, che sarebbe riso cotto in brodo di montone.
Però, per quanto strano vi possa sembrare, è un dolce.

Ingredienti:
- 70 g di riso
- 600 ml circa di brodo di montone (o di altra carne rossa)
- Una stecca di cannella
- Qualche chiodo di garofano
- Una bacca di vaniglia
- 50 g di burro
- 50 g di zucchero
- 50 g di uvetta
- 30 g di mandorle tritate
Procedimento:
Mettere l’uvetta a mollo in acqua tiepida (o nel rum, per un sapore più deciso)
Scaldare il brodo di montone e lasciarlo sobbollire con dentro la cannella, i chiodi di garofano e la bacca di vaniglia.
Sciogliere il burro e tostarvi leggermente il riso, poi procedere come un normale risotto, aggiungendo il brodo poco per volta e mescolando fino a cottura quasi completa: deve restare un po’ al dente e piuttosto asciutto.
Lasciare intiepidire, poi aggiungere l’uvetta ben strizzata, le mandorle tritate e lo zucchero.
Compattate l’impasto in uno stampo e lasciate raffreddare in frigo per 3/4 ore.
Sformate, tagliate a quadretti e guarnite con zucchero a velo, uvetta e mandorle intere.
Io li ho preparati direttamente in uno stampo di silicone, già porzionati.
