Seconda stella a sinistra. Una favola, un pane, un appuntamento.

seconda stella

C’era una volta un re. Anzi, forse non era un re, nemmeno un principe, o un barone, ma di certo era nobile, almeno d’animo.

Non si conosceva la sua provenienza: forse dalle profondità dell’oceano, forse da un mondo parallelo, forse dalla seconda stella in alto a sinistra.

Conosceva tanti luoghi, tante culture, tante lingue. Era un uomo molto saggio ed il suo compito nel mondo era diffondere la sua immensa conoscenza. Continua a leggere “Seconda stella a sinistra. Una favola, un pane, un appuntamento.”

Pane cacio e pepe – per sentirlo vicino vicino

pane cacio e pepe

Pane cacio e pepe: dichiaratamente romano, che più romano non si può. Perchè non si vive di sola pasta

Il due settembre, il Calendario del Cibo Italiano rende omaggio alla pasta cacio e pepe, e a settembre sono giustappunto dodici anni da quando il mio unicogenito si è spostato di quattrocento e spiccioli chilometri più in su, acquisendo in meno di un mese l’inflessione dialettale romanesca e resettando all’istante le sue origine sudiste. Continua a leggere “Pane cacio e pepe – per sentirlo vicino vicino”

Pitta chijna calabrese con cicoria e nduja

pitta

Pitta“, in calabrese, indica semplicemente un pane basso, con mollica umida e molto alveolata, a forma di ciambella.

pitta

Si prepara con farina 0, a volta con l’aggiunta di semola di grano duro, olio, acqua e lievito madre o di birra.

Essenziale la cottura in forno a legna: la “botta” di calore facilita la formazione della mollica a fori larghi.

Il termine “pitta” è di etimologia incerta. Si ritrova, con lo stesso significato di “pane”, “focaccia”, nella lingua greca, araba, bizantina, tutte civiltà che hanno comunque avuto una grande influenza in Calabria. Continua a leggere “Pitta chijna calabrese con cicoria e nduja”

Carbone vegetale e pane: si o no?

Del carbone vegetale, ovviamente, conoscevo l’esistenza, sotto forma di compresse anti gonfiori post-prandiali e altre simili piacevolezze, ma non avrei mai pensato di trovarlo negli impasti.

Invece qualcuno ha avuto questa idea e si è immediatamente scatenato il putiferio: “bello” “buono” “fa bene” “fa malissimo” “originale” “pessimo” “è veleno”.

All’inizio l’ho preso con un certo distacco: l’ho visto più che altro sotto un aspetto decorativo, magari per un buffet, vicino ad un pane alla zucca, o alla barbabietola. Divertente, nient’altro.

Poi ho cominciato anch’io a pormi delle domande, per rispetto nei confronti delle persone che mangiano ciò che io preparo. Ecco il risultato.

Venduto come integratore alimentare, l’ho trovato in commercio sempre unito ad altri componenti: argilla, ad esempio, o cumino. Deriva dal legno di pioppo, betulla e simili, attraverso un processo termico in assenza di ossigeno; giusto per precisare che NON è legno bruciato, NON ha nulla a che vedere con le sostanze cancerogene (v. acrilamide) che si formano quando si brucia la bistecca. (Che poi non capisco perché non chiudano le griglierie e non vietino il barbecue di ferragosto, ma questo è un altro argomento…)

Il carbone vegetale, anzi, dovrebbe essere benefico: contrastare gonfiori, aerofagia, flatulenze e altri divertenti effetti collaterali di una difettosa digestione.

Ma nell’impasto, alla fine, fa bene o male?

Ho cercato qualche ricetta di pane nero e la dose si aggira sempre intorno ai 6/7 g per ogni chilo di pane, suppergiù.

Nella confezione che ho a portata di mano ci sono 75 compresse ed il peso netto è 37,5 g. Ergo, ogni compressa pesa 0,5 g e per arrivare a 6 g mi servono 12 compresse.

13578901_10208487240071592_1807874025_n

La dose giornaliera consigliata è di 3 compresse. Consumando un chilo di pane in quattro giorni (!) non supererei in ogni caso la dose prevista.

Premesso che con tutta la mia buona volontà non riuscirei in ogni caso a mangiare più di 150 g di pane al giorno, non vedo come una simile dose potrebbe nuocermi. Oltre tutto, non è che si mangi tutti i giorni.

Sfatiamo pure la diceria che sia velenoso, cancerogeno, o nocivo. Lo è solo per gli Americani, che lo hanno vietato, ma poi si strafocano di bistecche alla brace e salsicce arrostite al punto da diventare nere. No, non sono molto attendibili.

In particolare, se si utilizza quello in polvere specifico per uso alimentare, non contiene nemmeno altri componenti, come avviene invece nelle compresse normalmente in commercio.

Classificato come colorante, con la sigla E153, è permesso purché non venga presentato come elemento medicinale, benefico o curativo, ma come semplice colorante. Ed il pane che lo contiene non può essere definito “pane”, ma semplicemente “prodotto di panetteria fine”. Forse per giustificare i prezzi esorbitanti a cui viene venduto?

Allora fa bene? Diciamo semplicemente che in giusta misura, come tutte le cose, non fa male. Se si hanno problemi digestivi, tuttavia, non credo proprio che mangiare 250 g di pane al giorno possa risolverli; semmai, il contrario.

Meglio quindi ridurre la dose di pane e carboidrati e, se proprio si vuole provare il carbone vegetale, prenderlo a parte sotto forma di compresse, solo quando serve.

Mangiamo integrale, che è meglio, e il pane al carbone vegetale teniamolo come elemento decorativo, per rendere originale un buffet o stupire un ospite.

Pane nero al carbone vegetale.

Volendo realizzare un pane piuttosto rustico, ho cercato la ricetta da un’artista della panificazione quale Rita Mighela del blog Pane e gianduia. Copio spudoratamente la sua ricetta, certa che non se ne avrà a male.

Ingredienti

  • 300 gr farina di grano tenero di tipo 1
  •  190 gr acqua fredda
  •  80 gr lievito madre rinfrescato da 4 ore
  •  1 cucchiaino malto d’orzo
  •  1 cucchiaino di sale
  • 3 g di carbone vegetale in polvere

Procedimento:

Sciogliere il  lievito madre in 100 g di acqua nella ciotola della planetaria.

Setacciarvi la farina con il carbone vegetale e aggiungere altri 80 g di acqua e il malto d’orzo.
Impastare con la velocità minima per circa 15 minuti, quindi verificare che l’impasto sia incordato tirandone un lembo verso l’alto e controllando che non si spezzi.

Aggiungere il sale inumidito dai 10 gr di acqua rimanente e lavorare l’impasto per altri 5 minuti.
Spegnere la planetaria, coprire la ciotola con pellicola e far riposare per 30 minuti.
Trascorso questo tempo, trasferire l’impasto su un piano antiaderente e iniziare a fare le pieghe.
Per evitare di incorporare troppa farina e alterare la percentuale di idratazione, avere l’accortezza di non infarinare il piano di lavoro, almeno per i primi 2 giri di pieghe.
Per tale motivo evitare di effettuare questo procedimento sulla spianatoia di legno ed utilizzare un tagliere in polipropilene, una tovaglietta in plastica, etc.
Posare quindi l’impasto sul piano, allargare bene con le mani leggermente umide e formare un quadrato, fare le pieghe a portafogli (pieghe a 3, o a libro). Ad ogni piega, premere leggermente con le dita.

Coprire quindi con una ciotola rovesciata e un panno e attendere 30 minuti.
Trascorsi i 30 minuti, ripetere le pieghe, sempre evitando di aggiungere farina, coprire di nuovo e puntare l’orologio a 60 minuti.
Trascorso questo tempo, infarinare un po’ il piano, stendere la pasta con le mani e formare ancora un quadrato, iniziare a formare il pane arrotolando un lato per pochi cm e premendo leggermente il bordo con le dita, arrotolare ancora e premere, continuare cosi fino a formare il pane e lasciare i bordi sotto.

Foderare un cestino  con un canovaccio, spolverizzare tanta farina sul fondo e sui bordi, disporvi dentro il pane, spolverizzare anche la superficie con un po di farina.
Coprire rialzando i bordi del canovaccio e lasciando lo spazio necessario per la crescita.

Attendere 30 minuti, poi mettere a lievitare in frigorifero per circa 8 ore
Riepilogando:
1) Impasto + 30 minuti di riposo
2) Pieghe + 30 minuti di riposo
3) Pieghe + 60 minuti di riposo
4) Formatura + 30 minuti di riposo in cestino e a temperatura ambiente
5) Lievitazione in frigo per circa 8 ore.
Trascorso questo tempo, togliere il cestino con il pane dal frigorifero e far acclimatare per circa 2 ore, quindi mettere a lievitare in forno spento con luce accesa ( se in casa è freddo) per altre 3 ore circa, comunque fino a quando il pane avrà raddoppiato il suo volume.
Scattare una foto, per avere presente la situazione di partenza, è sempre molto utile.
Quando il pane sarà lievitato, toglierlo dal cesto afferrando i bordi del canovaccio, posarlo sul tavolo, prenderlo con delicatezza e trasferirlo su un piano.

Praticare 3 tagli obliqui profondi meno di 1 cm, tenendo la lametta di sbieco.
Naturalmente prima della cottura avremo acceso il forno a 220°. Mettere qualche cubetto di ghiaccio sul fondo del forno e creare vapore, infornare il pane e attendere 15 minuti, poi abbassare a 180° e cuocere ancora per circa 35 minuti.
Creare vapore è importante nei primi minuti di cottura perché la crosta non si formi subito e il pane abbia il tempo di espandersi.
Per verificare la cottura, è molto utile battere sul fondo del pane con un mestolo di legno, se il rumore è sordo, il pane è cotto.
A questo punto lasciare lo sportello aperto a fessura per qualche minuto, perché diventi dorato e croccante, quindi sfornare e mettere a freddare su una gratella.

Arte e cibo: pane e vino per le ultime cene.

L’arte e il cibo: un argomento difficile e complesso, ricco di sfaccettature ed interpretazioni.

Strettamente legati tra di loro: in fondo l’arte è rappresentazione di vita, e quale simbologia è attinente alla vita più del cibo?

Il cibo nell’arte è il tema del giorno, sul calendario del cibo italiano di AIFB.

 

L’Ambasciatrice è Maria Teresa Cutrone ed io mi sono talmente appassionata all’argomento, nonostante la mia scarsissima conoscenza artistica, da voler contribuire con qualche riga su uno dei soggetti più ritratti nei grandi dipinti, in tutti i tempi: l’Ultima Cena.

Ovviamente immancabili, in queste raffigurazioni, il pane ed il vino, citati da tutti e quattro gli Evangelisti, mentre non si ha notizia di quali altri piatti fossero serviti nell’occasione.

In accordo alle usanze della Pasqua ebraica, in alcuni dipinti è raffigurato l’agnello, come nella sontuosa mensa dipinta dal Tintoretto e conservata a Venezia, in San Giorgio Maggiore. Oltre ai già citati alimenti, compaiono anche frutta, minestra di verdura, manna. L’agnello si ritrova anche nelle opere dei meno noti fratelli Cantagallina e Jacopo Bassano.

Jacopo Bassano
Jacopo Bassano
Fratelli Cantagallina
Fratelli Cantagallina
Tintoretto
Tintoretto

In altre occasioni l’agnello è sostituito dal pesce, vuoi perché il quadro è commissionato da un convento domenicano, come nel caso dell’Ultima Cena di Leonardo presente in Santa Maria delle Grazie a Milano, per cui il pesce, alimento penitenziale, è più consono alla dottrina; vuoi per la simbologia che accomuna da sempre il Figlio di Dio al pesce.

Leonardo da Vinci
Leonardo da Vinci

Due grossi pesci sono in primo piano nel bellissimo mosaico in Sant’Apollinare Nuovo, a Ravenna e pesce viene servito alla tavola dipinta da Daniele Crespi.

Daniele Crespi
Daniele Crespi
Mosaico di Sant'Apollinare
Mosaico di Sant’Apollinare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma, tornando ai temi fondamentali di questo articolo un po’ fuori dai miei soliti schemi, vorrei rientrare in una forma di arte che mi è più familiare, ossia la cucina. Per cui propongo una ricetta che mi sembra calzi a pennello in questa giornata: il pane al vino. Per prepararlo ho preso ispirazione, con qualche modifica, dal Beaujolais Bread di Lionel Vatinet, dal suo libro “A passion for bread”.

Ingredienti:

  • 355 g di farina 0
  • 150 g di lievito madre rinfrescato e attivo, idratato al 50%
  • 35 g di semi di lino
  • 7 g di sale
  • 20 g di malto d’orzo
  • 320 g di vino Cirò rosso
  • 1 cucchiaino di rosmarino tritato finemente

La ricetta originale prevedeva l’uso di lievito di birra, di vino Beaujolais (un po’ troppo costoso) e l’aggiunta di salame a pezzetti, chi io ho omesso.

Procedimento:

Sciogliere il lievito madre in metà vino, unendo il malto d’orzo.

Riunire in una ciotola la farina con il sale e i semi di lino, poi aggiungere il lievito madre sciolto e, poco alla volta, il resto del vino.

Potrebbe non essere necessario utilizzare tutto il vino: il composto deve comunque risultare molto morbido, e leggermente appiccicoso.

Trasferire l’impasto sulla spianatoia leggermente infarinata e lavorarlo per dieci minuti almeno, formando pieghe del primo tipo (si prendono i lembi esterni dell’impasto e si ripiegano verso il centro) aiutandovi all’inizio con un tarocco.

Non aggiungete farina.

Raccogliere l’impasto a palla e metterlo a lievitare coperto in un posto tiepido (l’ideale è il forno con la lucina accesa).

Lasciare riposare per un’ora, poi ripetere le pieghe e rimettere a lievitare per un’altra ora.

Ripetere una terza volta il procedimento e lasciare lievitare per altre due ore.

Stendere l’impasto, cospargerlo con il rosmarino, avvolgerlo più volte per amalgamare bene il tutto, poi stenderlo nuovamente e ricavarne il numero di pezzi desiderato. Potete farne palline da assemblare tipo Danubio, oppure pagnotte e filoni più grossi, da affettare.

Lasciate nuovamente riposare i pezzi formati per un’ora e mezza, poi cuocete a 200° per mezz’ora circa, i primi dieci minuti nella parte bassa del forno, con una teglia sistemata sul ripiano superiore, a fare da barriera, poi togliete la teglia e spostate il pane nel ripiano superiore. Ovviamente dipende dalla resa del forno e dalla grandezza delle pezzature.

Pane al vino (1)

Pane di grano Khorasan – non necessariamente Kamut ®

Si, perché Kamut ® è semplicemente il nome di un’azienda canadese, che coltiva e produce, con metodo biologico, il grano turanicum, o Khorasan. Il bello è che la farina Kamut ® ci arriva dal Canada, ma in Calabria, Basilicata ed Abruzzo abbiamo coltivazioni di grano Saragolla, che è un’altra sottospecie di turanicum, molto simile al Khorasan, così come la cultivar Senatore Cappelli, tutte varietà povere di glutine e molto ricche di proteine

Alla luce di questo, ed in virtù del mio amore per i prodotti locali ed a chilometro zero, o poco più, sono andata alla ricerca di questa farina. Bene, anzi, male. Ho trovato alcune, sporadiche, coltivazioni di Senatore Cappelli in Calabria, ma la lavorazione e la commercializzazione sono milanesi. In Basilicata si coltiva il Saragolla, ma viene venduto indovinate un po’ dove? A Milano. In compenso, presso diversi negozi bio, si trova abbastanza facilmente la farina Kamut ®.

Vi dirò che mi sono girati i… neuroni. Poi ho trovato un mulino nei dintorni che “spaccia” farina di khorasan, anzi, di saragolla, quasi di nascosto, perché nessuno la chiede, se non quello sparuto gruppo di panificatori assatanati (di cui faccio parte) che conserva segretamente e gelosamente queste chicche da intenditori.

Per avere l’indirizzo ho dovuto privarmi di buona parte della mia pasta madre di provenienza sorelle Simili, ma cosa non si fa per una farina? Intanto, ho ricavato una vivacissima pasta madre, il che era già un buon punto di partenza. LM Kamut (2)

E da lì, il pane è stata la diretta conseguenza:

Ingredienti:

  • 50 gr. di lievito madre di saragolla, rinfrescato e raddoppiato, tenuto a temperatura ambiente
  • 200 gr. di farina integrale di saragolla
  • 100 gr. di farina 0
  • 200 ml di acqua a temperatura ambiente
  • un cucchiaino di malto d’orzo
  • mezzo cucchiaino di sale

Sciogliete il lievito madre in 150 ml. di acqua, con il malto d’orzo.

Lasciatelo riposare per 10/15 minuti, poi aggiungetelo, nella planetaria, alle farine setacciate con il sale.

Quando l’impasto sarà ben amalgamato, aggiungete, poco per volta, il resto dell’acqua. Date il tempo alle farine di assorbirla bene.

Continuate ad impastare, a velocità media, per almeno 10 minuti.

Coprite la ciotola con uno strofinaccio e lasciate raddoppiare. Ci vorranno 6/8 ore.

Togliete l’impasto dalla ciotola e sgonfiatelo sulla spianatoia ben infarinata.

Fate due giri di pieghe, formate la pagnotta e rimettete a lievitare. Io ho utilizzato uno stampo da pancarré perché, essendo l’impasto piuttosto morbido, volevo che restasse compatto.

Lasciatelo nel forno, con la lucina accesa, fino al raddoppio (2/3 ore), poi accendete il forno e portatelo a 200°. Dopo 10 minuti abbassate la temperatura a 180° e cuocete per un’ora.

Risultato sorprendente, ne è valsa la pena, anche se non è Kamut ®. E’ un pane morbido, aromatico e rustico, ottimo in accompagnamento a salumi e formaggi saporiti. Ho provato a ricavarne dei crostini, abbrustolendoli in forno, e sono andati benissimo nella vellutata, si sono ammorbiditi senza sbriciolarsi.

Se vi fa piacere, seguitemi anche su Facebook.

Pane ai pomodori secchi con farina 1

Per preparare questo pane ai pomodori secchi ho utilizzato farina Petra 1, che è meno raffinata di altre, ma, proprio per questo, molto più saporita. Per accentuare il sapore e l’aspetto rustico, l’ho farcito con pomodori secchi. Il risultato è sorprendente, e replicherò a breve con altri tipi di ripieno.

Ingredienti:

  • 420 gr. di farina Petra 1
  • 120 gr. di lievito madre rinfrescato da 3/4 ore e ben attivo
  • 190 gr. di acqua
  • 1 cucchiaio di olio
  • 1 cucchiaino di malto d’orzo
  • 1 cucchiaino di sale
  • pomodori secchi a piacere
  • 2 cucchiai di parmigiano grattugiato

Sciogliete il lievito madre in metà acqua, con il malto d’orzo.

Mettete la farina nell’impastatrice con il sale, ed aggiungete il lievito sciolto nell’acqua.

Ma mano che l’acqua viene assorbita, versate l’altra, ed in ultimo il cucchiaio di olio.

Lasciate riposare l’impasto per mezz’ora, poi mettetelo sulla spianatoia e date un primo giro di pieghe a libro.

Coprite con un’insalatiera rovesciata e lasciate riposare un’altra mezz’ora.

Date un secondo giro di pieghe.

Ripetete ancora una volta, poi raccogliete l’impasto a palla e lasciatelo riposare il luogo protetto, coperto, per tutta la notte.

Al mattino stendete l’impasto, cospargetelo di parmigiano grattugiato e pomodori secchi tagliuzzati, poi arrotolatelo su se stesso.

Sistematelo su una teglia ricoperta da carta forno ( o uno stampo da plumcake) e lasciate lievitare in forno, con la lucina accesa, per 3/4 ore.

Accendete il forno (senza togliere la teglia) e portatelo a 200°. Dopo 5 minuti abbassate a 180° e lasciate cuocere per 50 minuti (anche un’ora, se vi piace la crosta croccante).

Pane naan in padella – dalla terra promessa

Premessa: il pane naan, in realtà, sarebbe quello cotto nel tandoori, il tipico forno d’argilla a cono rovesciato.

La versione cotta su piastra rovente, dovrebbe essere il “roti”, spesso non lievitato e preparato con una farina semintegrale. Noi, per non sbagliare, facciamo una via di mezzo.

Ca-naan, la Terra Promessa, era il paese dei Cananei, gran panettieri. Originariamente prodotto con lievito madre, oggi il pane naan viene realizzato anche con lievito in cubetti o bustine. Comunissimo nel sud dell’Asia ed in Medio Oriente, questo tipo di pane viene spesso arricchito con l’aggiunta di yogurt o latte di capra. Veloce da preparare, si presta a diverse farciture, fredde o calde.

Eccovi gli ingredienti:

  • 300 gr di farina W260 Garofalo
  • 12 gr. di lievito di birra
  • un pizzico di sale
  • un vasetto di yogurt bianco da 125 gr.
  • 30 ml. di olio evo
  • poca acqua tiepida

Sciogliete il lievito in poca acqua tiepida.

Setacciate la farina ed impastate con lo yogurt ed il lievito sciolto.

Aggiungete il sale ed in ultimo l’olio.

L’impasto dovrà essere elastico e non appiccicoso.

Lasciatelo lievitare, coperto da uno strofinaccio, per un paio d’ore.

Suddividete l’impasto in sei pezzi e schiacciateli con il mattarello.

Arroventate una piastra in ferro (tipo il testo romagnolo) o una padella antiaderente, e cuocetevi il pane naan, due/tre minuti per parte.

Farcite, appena intiepidito, a piacere.